La prigionia e la rivelazione

Nel 1852 Bahá’u’lláh fu ingiustamente accusato di complicità in un attentato contro la vita di Nasiri’d-Din Shah, il sovrano dell’Iran. Quando fu emessa l’ordinanza del Suo arresto, Egli Si incamminò per andare incontro ai Suoi accusatori, con grande stupore di coloro che erano stati incaricati di arrestarLo. Essi Lo condussero, a piedi nudi e in catene, attraverso le strade gremite dalla folla, in una famigerata segreta, nota come “Pozzo nero”.

La segreta era stata un tempo la riserva d’acqua di un bagno pubblico. Fra le sue mura languivano molti prigionieri, rinchiusi in un ambiente freddo e malsano, legati assieme da pesantissime catene che segnarono il corpo di Bahá’u’lláh per il resto della Sua vita.

Foto storica del corridoio originale che portava all'entrata del "Pozzo nero", in persiano Síyáh-Chál - la prigione nel quale Bahá'u'lláh fu rinchiuso nel 1852.

In questo lugubre luogo si svolsero eventi rari e preziosi: un uomo mortale, apparentemente umano sotto ogni aspetto, fu prescelto da Dio per portare all’umanità un nuovo messaggio.

Questa esperienza della Rivelazione divina, solo indirettamente accennata nei racconti della vita di Mosè, di Cristo e di Muhammad, è descritta dalle parole di Bahá’u’lláh: «Durante i giorni in cui giacevo nella prigione di Teheran, sebbene il tormentoso peso delle catene e l’aria impregnata di fetore Mi permettessero ben poco riposo, pure nei rari momenti di assopimento sentivo come se qualcosa fluisse dal sommo del Mio capo sul Mio petto, proprio come un impetuoso torrente che si precipitasse sulla terra dall’alto di un eccelso monte... In tali momenti la Mia lingua declamava cose che nessun uomo potrebbe sopportare di udire».